dic172018
Riciclaggio, basta il dolo eventuale. (Cass. 6633/18)
Con la sentenza in commento (56633/18) la Cassazione ha fissato importanti principi di diritto in relazione all’elemento soggettivo del delitto di riciclaggio: imputabilità anche sulla base del dolo eventuale, e insufficienza delle presunzioni semplici ai fini della prova della sussistenza dell’elemento psicologico.
Di seguito, brevemente, i punti principali.
(1) Ai fini della contestazione del reato di riciclaggio è stata ritenuta sufficiente la costituzione di una società londinese anche se poi tale società non era servita allo scopo per cui era stata creata. La Corte, infatti, ha affermato che “del tutto irrilevante è quindi il fatto che il mezzo originariamente scelto (la costituzione della società londinese) non sia poi servito, posto che oggetto dell’incarico non era la costituzione della società, ma il rientro di capitali.”
(2) La Cassazione ha proseguito affermando che “non è condivisibile l’assunto difensivo secondo il quale il reato di riciclaggio non sarebbe configurabile in caso di intervenuta prescrizione del reato tributario presupposto”. L’annullamento, nel caso di specie, doveva ravvisarsi nella mancata raggiunta prova da parte della pubblica accusa della condotta delittuosa da parte dei clienti dell’imputato.
(3) La Corte ha poi stabilito che per dimostrare la sussistenza del reato presupposto del riciclaggio sarebbe stato necessario provare l’omessa dichiarazione dei redditi e l’evasione dell’imposta relativamente all’anno in contestazione, ossia il reato tributario presupposto degli stessi clienti.
(4) È stata inoltre richiamata consolidata giurisprudenza per cui: “Integra di per sé un autonomo atto di riciclaggio, essendo il reato di cui all’art. 648 bis c.p. a forma libera e potenzialmente a consumazione prolungata, attuabile con modalità frammentarie e progressive, qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi successivo a precedenti versamenti, ed anche il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro diversamente intestato, ed acceso presso un differente istituto di credito.”
(5) Altro elemento degno di nota è la valutazione dell’elemento soggettivo che la Cassazione ha dato del riciclatore. In questo caso, infatti, la Cassazione ha ribadito il principio secondo cui si ha dolo eventuale di riciclaggio quando chi agisce ha presente la concreta possibilità e quindi accetta consapevolmente il rischio della provenienza delittuosa del denaro ricevuto ed investito.
(6) Per quanto riguarda il reato di truffa, invece, nell’ottica del reato di truffa contrattuale l’attività fraudolenta deve generare come risultato l’errore della vittima.” Prosegue inoltre: “l’errore, in questa prospettiva, è dunque una falsa rappresentazione di circostanze di fatto capaci di incidere sul processo di formazione della volontà, a cui il soggetto passivo è stato indotto dagli artifici e raggiri posti in essere dall’agente. Ciò che contraddistingue l’errore, nella truffa, è quindi la peculiarità di essere, ad un tempo, causa dell’atto di disposizione patrimoniale della vittima ed effetto degli artifici e raggiri.”
(7) Da considerare inoltre la condanna dell’imputato per emissione e utilizzo di fatture per prestazioni inesistenti (articoli 2 e 8, Dlgs 74/2000). Il complesso «marchingegno» (così come indicato dalla Suprema Corte) sarebbe consistito nella classica triangolazione tra società italiane ed estere giustificate da fatture inesistenti. Nel caso in questione, la Guardia di Finanza aveva appurato che le due società italiane che avevano emesso e utilizzato fatture per prestazioni inesistenti non erano operative e quindi non avevano potuto aver svolto alcuna attività, inoltre avevano il medesimo oggetto sociale ed erano state amministrate entrambe dal medesimo imputato.
Il monito dei giudici è quindi chiaro: ai fini del reato di riciclaggio è sufficiente la consapevolezza della provenienza delittuosa del denaro anche se prova del reato presupposto, in questo caso, deve essere fornita dall’accusa.
Si allega la sentenza in oggetto.
Di seguito, brevemente, i punti principali.
(1) Ai fini della contestazione del reato di riciclaggio è stata ritenuta sufficiente la costituzione di una società londinese anche se poi tale società non era servita allo scopo per cui era stata creata. La Corte, infatti, ha affermato che “del tutto irrilevante è quindi il fatto che il mezzo originariamente scelto (la costituzione della società londinese) non sia poi servito, posto che oggetto dell’incarico non era la costituzione della società, ma il rientro di capitali.”
(2) La Cassazione ha proseguito affermando che “non è condivisibile l’assunto difensivo secondo il quale il reato di riciclaggio non sarebbe configurabile in caso di intervenuta prescrizione del reato tributario presupposto”. L’annullamento, nel caso di specie, doveva ravvisarsi nella mancata raggiunta prova da parte della pubblica accusa della condotta delittuosa da parte dei clienti dell’imputato.
(3) La Corte ha poi stabilito che per dimostrare la sussistenza del reato presupposto del riciclaggio sarebbe stato necessario provare l’omessa dichiarazione dei redditi e l’evasione dell’imposta relativamente all’anno in contestazione, ossia il reato tributario presupposto degli stessi clienti.
(4) È stata inoltre richiamata consolidata giurisprudenza per cui: “Integra di per sé un autonomo atto di riciclaggio, essendo il reato di cui all’art. 648 bis c.p. a forma libera e potenzialmente a consumazione prolungata, attuabile con modalità frammentarie e progressive, qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi successivo a precedenti versamenti, ed anche il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro diversamente intestato, ed acceso presso un differente istituto di credito.”
(5) Altro elemento degno di nota è la valutazione dell’elemento soggettivo che la Cassazione ha dato del riciclatore. In questo caso, infatti, la Cassazione ha ribadito il principio secondo cui si ha dolo eventuale di riciclaggio quando chi agisce ha presente la concreta possibilità e quindi accetta consapevolmente il rischio della provenienza delittuosa del denaro ricevuto ed investito.
(6) Per quanto riguarda il reato di truffa, invece, nell’ottica del reato di truffa contrattuale l’attività fraudolenta deve generare come risultato l’errore della vittima.” Prosegue inoltre: “l’errore, in questa prospettiva, è dunque una falsa rappresentazione di circostanze di fatto capaci di incidere sul processo di formazione della volontà, a cui il soggetto passivo è stato indotto dagli artifici e raggiri posti in essere dall’agente. Ciò che contraddistingue l’errore, nella truffa, è quindi la peculiarità di essere, ad un tempo, causa dell’atto di disposizione patrimoniale della vittima ed effetto degli artifici e raggiri.”
(7) Da considerare inoltre la condanna dell’imputato per emissione e utilizzo di fatture per prestazioni inesistenti (articoli 2 e 8, Dlgs 74/2000). Il complesso «marchingegno» (così come indicato dalla Suprema Corte) sarebbe consistito nella classica triangolazione tra società italiane ed estere giustificate da fatture inesistenti. Nel caso in questione, la Guardia di Finanza aveva appurato che le due società italiane che avevano emesso e utilizzato fatture per prestazioni inesistenti non erano operative e quindi non avevano potuto aver svolto alcuna attività, inoltre avevano il medesimo oggetto sociale ed erano state amministrate entrambe dal medesimo imputato.
Il monito dei giudici è quindi chiaro: ai fini del reato di riciclaggio è sufficiente la consapevolezza della provenienza delittuosa del denaro anche se prova del reato presupposto, in questo caso, deve essere fornita dall’accusa.
Si allega la sentenza in oggetto.